Recensioni

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Dino Villani
Febbraio 1982
Sebbene la norma corrente di questo nostro periodo sembri essere quella di voler tutto e subito (così che anche nelle arti figurative prevale la ricerca della sintesi che riassume in una forma ed in un concetto magari esasperato quel che si vuol rendere) ci sono anche delle ragionate eccezioni. Qualcuno, alla sintesi, preferisce l'analisi spinta anche fino al punto di arrivar ad un esame attento di tutte le più sfumate componenti che danno consistenza all'oggetto.E' il caso di un giovane pittore Tindaro Calia uscito di recente da Brera che opera a Milano ed ha esposto di recente alla Galleria Nuova Sfera.
Se nel complesso dei dipinti di Calia, si può constatare che egli è ancora alla ricerca di una strada rettilinea da seguire con decisione e convinzione, è anche facile rendersi conto che alla base di ogni sua prova c'é, perfettamente chiara ed inequivocabilmente, la costante di una ricerca insistente ed approfondita di quella sottili e preziose note cromatiche che danno consistenza alle cose.
Diremmo che Calia arriva a farci sentire, attraversare la sua tavolozza ricca di passaggi musicali; che le cose cono costituite da materia e da luce fino al punto da diventar quasi trasparenti. E lo vediamo bene quando dipinge i panni dei suoi letti sfatti, tanto lievi da sentirli vibrare nell'atmosfera mossa della brezza che entra dalle finestre, o quando affronta coraggiosamente qualche ardito controluce che trasfigura le immagini.
Non sappiamo dove potrà arrivare Calia, ma se insisterà sulla strada che ha intrapresa, siamo certi che ci offrirà sempre più una pittura ricca di sapore e nutrita di quie valori che rendono viva la materia la quale é infatti costituita da un tessuto vibrante, palpitante e viene espressa particolarmente con quei valori cromatici che un occhio attento con mostra di essere quello di Calia riesce a far affiorare e con animo e mano sensibile, a fissare perché resti nel tempo.
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Carlo Franza
Milano, 25 febbraio 1992
Fedeltà alle ragioni di uno stile
In un ambito che è quello figurale, sono pochi i giovani che oggi si cimentano, vergando tra colori e pennello la loro esistenza, il diario del mondo, un diario interiore, che pure non si abbandoni a suggestioni mitologiche, né a meditazioni come d'altronde si legge attraverso una sviata concettuosità barocca in una certa area lombarda cui pure ha segnato parole Giovanni Testori. Tra questi giovani, tra quelli che noi amiamo con l'approfondimento della sintassi pittorica, votato a un'assoluta tensione ideale, a una profonda componente etica, a una lucida coscienza del ruolo dell'arte, vi figura il bel nome di Tindaro Calia. Sono anni i suoi di tremendo abbandono a un credere, a una fedeltà ispirativa, difficile, in cui ha acquistato ormai a viva voce sua e d'altri la bella patente di pittore serio, di autentico moderno, che ha riscattato anche attraverso la lucida analisi il nuovo della vicenda artistica contemporanea. In questo spaccato, in questo farsi e disfarsi di occasioni, egli ha saputo come pochi confrontarsi con la cultura per dare e significare nei temi scelti e proposti la sua vera vocazione espressiva.

Volti, figure, bucrani e nature morte. Soprattutto ritratti. Non ancora rigorosa periodizzazione, ma è tuttavia individuabile una sorta di andamento spiraliforme che, sotto la spinta riflessiva di tematiche e linguaggi, porta progressivamente l'opera a una sincera depurazione. Una dinamica complessa, carica di ricchezza e problematicità del dettato interiore, allarga il disagio individuale all'immanente realtà. L'innesto prepotente della lezione espressionista, anima il quadro di una potente lezione cinetica, di macchie fauve, disciplinate da un segno che struttura la lezione cromatica. Ecco allora calda e visibile, sofferta e intensa, gioiosa e pudica, l'organizzazione figurale che riesce a operare anche attraverso una limpida sintassi materica. La gamma cromatica si attiva attraverso una modulazione di bianchi, rossi, versi, azzurri, gialli, ad una tavolozza quasi ironicamente lirica, in un ritmarsi di sciabolate di colore e intensa luminosità, segno di una straordinaria "gioia di vivere", come se l'uomo o la figura fosse messa per intero di fronte alla propria esistenza e al suo destino, in un movimento interno dello spazio che tutto ingoia, in veri e propri coaguli di energia. Ecco che il linguaggio figurativo e la costruzione del proprio mondo poetico, è significato per Tindaro Calia una rapida maturazione, verso una storia umana letta nella carne e nel sangue della propria vicenda intima. Ma veniamo alla figura e al ritratto. Un nutrito gruppo di oli, grandi e piccoli, tavolette e tele in formato rettangolare che scoprono l'immagine dall'alto in basso, rappresentano l'esito più compiuto. Ritratti di amici, di familiari, di persone care, il cui pittore ha focalizzato cultura, adesione, emozione; colti in piedi e seduti, in riposo e in elegante gestualità, e soprattutto "da interno". Il piccolo ritratto di "Nerina", che è poi un volto o una parte di un volto, quasi a voler rammemorare solo quegli occhi "parlanti", ad avvertirne l'intensità, la direzione, l'intera determinatezza formale dello sguardo, giacché il volto costituisce da sempre il vertice della capacità di rispecchiare l'anima, esprime il culmine di questo senso estremo del moto con un movimento veramente minimo. In questo volto, e nello sguardo soprattutto, negli occhi schiacciati contro il vetro dell'anima. Tindaro Calia ha rivelato una pittura e un'emozione come il risveglio dentro un sogno, un momento dove tutto è ancora reale e tutto ancora sognato. Egli cerca un distacco in questi ritratti, in primis "nell'autoritratto", esce da sé, ci invita a seguirlo per un attimo sulla soglia del suo mondo interiore. E ci riesce con la consueta sua mira, senza sviare l'immagine e l'ostacolo, ma con la consueta elegante matericità distesa, e una tavolozza ricca di tutti i colori dell'arcobaleno. Un accentuato e affettuoso autobiografismo si legge in opere dove l'immagine é colta totalmente o come ritagliata, tradotta da una ricca materia quasi scolpita con il colore e con la luce, una "luce del cuore", ma dalla quale non é bandita la linea. Una composizione ben ritmata dai volumi verticali, molto spesso, e nella quale sono riconoscibili tracce di stampo picassiano-cubista. La presenza umana talvolta ritratta all'interno di uno spazio con oggetti, quali una sedia o una poltrona, restituisce uno spazio in permanente equilibrio sulla base di una sorta di prospettiva mentale che accomuna punti di vista e percezioni; bruciandoli e riplasmandoli al fuoco dell'emozione. Gli interni raccontati attraverso una calda stesura di toni si caricano di riferimenti letterari in combustione e allo specchio ustorio della coscienza, superando le pastoie della dimensione meramente illustrativa. Ecco il senso del soffermarsi spesso e insistito attorno a sedie, bucrani, strumenti musicali, piante, per costruire con il colore le precise armonie volumetriche e compositive, e dare da ultimo al colore l'atmosfera, la carica umorale, luciferina, il tentativo riuscito di una pennellata non elusiva ma forte e decisa, morbida ed elegante. L'energia primaria che s'origina dalle immagini, dalle figure, dai ritratti, da questa esegesi straniante e riflessiva di un mondo che fece già tanto parlare Georg Simmel sul problema, sostanzia la correlazione tra l'esperienza fisica e intima con il mondo esterno, tra affondamenti e incursioni nel segreto universo della materia, in chiave espressionistica tra densità organiche di impasti e di stratificazioni del colore parlante e lo spessore costruttivo dell'ordito che si piega alle hautes pàtes di Fautrier.
Se le nature morte relazionano all'orizzonte l'inedito nitore formale e la limpidezza di una visione pur sussistendo un ductus corposo e pregno di luce; i volti, i sereni, vitali, lampeggianti, rinnovati, disincantati volti di Tindaro Calia, innescano una altissima tensione creativa, i cui esiti sono alla base della rinnovata e arricchita strumentazione espressiva del Tindaro, che esibisce, infine, la materia dell'imagine e della figura come sostanza di luminosa estensione e di profonda risonanza poetica. Senza dramma, senza dimagrimenti e sfilacciature dei toni, senza artifici e shock esistenziale, come altri arredano i loro dipinti, Tindaro Calia esce allo scoperto, e scopertamente affida alla superficie dei dipinti l'autonoma e astratta strutturazione dell'immagine pittorica, che si certifica in termini qualitativi e quantitativi da un interno principio d'ordine, con qualche tracciato di velocità e spessore variato e un colore di respirante e interna vitalità, da cui si irradia con una mobilità fremente e misteriosa il fine ultimo del suo fare pittura. E parte da lontano questa fragranza fenomenica di soluzioni, di felicità cromatiche e plastiche, di orientamenti espressivi e formali di un codice, testimonianza di assoluta coerenza della sua ricerca e della fedeltà alle ragioni di uno stile mai tramontato.
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Francesco Poli
Busto Arsizio, 1994
IL TEATRO DELLA RAPPRESENTAZIONE PITTORICA Grande appare oggi, nelle arti figurative, la libertà di inventare, di scegliere le linee di ricerca e le soluzioni operative di provenienza più diversa. Ma quanti sono gli artisti delle nuove generazioni in grado di affrontare questa prova di apparente libertà senza scivolare nella generica e vuota dimensione delle trovate ad effetto, degli attraversamenti stilistici e degli ammiccamenti citazionistici, mantenendo una propria forte e chiara ragione di ricerca? Chi e capace davvero, oggi, di credere in un lavoro con obiettivi impegnativi, senza preoccuparsi preventivamente di essere in linea con le più aggiornate elaborazioni plastiche figurative e di installazione? Bisogna dire che la libertà di operare che contraddistingue l’arte attuale può essere di per se una piattaforma fertile di sviluppi inediti, ma anche soprattutto un pantano in cui tutto rischia di affondare senza più differenze apprezzabili. Il problema che si pone all’arte non e certo di poco conto: si tratta di prendere atto del processo di progressiva perdita di senso della sua funzione significante specifica, dell’esaurirsi delle sue capacita di incidenza sul piano culturale. C’è dunque una grande crisi di identità del linguaggio artistico, che si accompagna a una sempre maggiore consapevolezza della pressione della realtà esterna sull’arte, tale da rischiare di annullare, o comunque indebolire fortemente, qualsiasi speranza da parte degli artisti di difendere una propria dimensione di privilegiata autonomia estetica.
Questa realtà e quella della straripante forza di impatto e penetrazione delle informazioni e delle immagini dei mass media, dalla televisione al cinema e ai giornali.Di fronte a tutto questo l’arte figurativa si trova obiettivamente spiazzata, conscia della sua impotenza, vittima in un certo senso di un processo di spettacolarizzazione non gestito in prima persona, ma al traino dei veri grandi eventi spettacolari che vengono messi in scena da altri media. Paradossalmente, la forza espressiva dell’operare artistico appare neutralizzata in misura proporzionale all’allargamento superficiale di interesse per l’arte da parte del grande pubblico. In altri termini, la spettacolarizzazione eccessiva delle manifestazioni artistiche, probabilmente inevitabile nella nostra società del consumo culturale di massa, ha portato alla marginalizzazione di un aspetto fondamentale dell'identità figurativa, vale a dire la sua capacità di "messa in forma", di peculiare elaborazione creativa fondata su valori specifici, irriducibili ad altri contesti linguistici. Ormai il principio duchampiano che tutto può essere arte, se viene contestualizzato come tale, e stato più che inflazionato, autorizzando qualsiasi artista a operare spiazzamenti e dislocazioni, proponendo oggetti, idee e ideuzze come opere. I risultati sono ormai nella maggioranza dei casi poco interessanti. La questione, s’intende, non riguarda di per se le tecniche e i materiali utilizzati: tutto può essere messo in gioco, ma a patto che riesca a caricarsi di un'intensità formale vera e significativa.
L’arte contemporanea, oggi, deve prendere atto dei suoi limiti, ridefinire le specificità delle sue condizioni di esistenza, assorbendo e distillando il meglio delle precedenti esperienze e lavorando più in termini di intensità qualitativa che di estensione quantitativa. In una situazione del genere la pittura tout court, anche quella legata a una dimensione di più stretta figurazione, può essere riesaminata con un occhio diverso, con un’attenzione nuova. Il suo spazio di esistenza e di incidenza culturale, che per la verità non e mai venuto meno, mantiene delle potenzialità intatte, purché si sappia distinguere tra la marea di produzioni scadenti e stereotipate e la ben più ristretta area di ricerca autentica, che può essere di diversi livelli, ma che e caratterizzata sempre da una tensione estetica vitale. Tindaro Calia, non c’è bisogno di dirlo, fa parte di questa seconda categoria. Certamente non ha mai pensato di sviluppare la sua ricerca al di la dei limiti ben definiti della pittura; non si e mai preoccupato di sperimentare forme espressive non legate all’uso dei colori, dei pennelli e dei supporti classici. E qui sta la sua forza, qui la fonte della sua entusiastica determinazione e della sua ostinata tenacia operativa. Certamente alla base c’è il piacere diretto, istintivo, del dipingere, la soddisfazione di poter dar sfogo a un talento non indifferente nel saper cogliere le forme, definire le proporzioni, trovare gli accordi cromatici per rappresentare figure, oggetti e contesti ambientali per lui interessanti. Ma questo non basta. Un talento va sviluppato attraverso l’esercizio continuo e attraverso l’assimilazione di una cultura della visione per diventare vero linguaggio che trasmetta una vera vibrazione estetica. Cultura della visione, e per essere precisi della visione pittorica, significa prima di tutto conoscenza approfondita della storia dell’arte, ma uno studio di questo genere per un pittore, che pensa eminentemente per immagini, ha finalità operative. Da questo punto di vista, Tindaro non rischia condizionamenti culturalistici, perché la scelta dei suoi punti di riferimento privilegiati deriva da una stretta sintonia con la propria particolare sensibilità visiva nella percezione e interpretazione della realtà. Il suo obiettivo e quello di riuscire a trasmettere un’energia vitale che nasce dalla presa diretta con la realtà e allo stesso tempo caricare l’immagine dipinta con i colori delle emozioni personali, con le tensioni formali che registrano il proprio stato d’animo. Non per caso, dunque, la pittura che più affascina l’artista e quella che affonda le sue radici nelle tendenze contemporanee, ormai classiche, dell’espressionismo tedesco e in quello francese dei Fauves, e negli sviluppi successivi più stimolanti. E allora, le valenze tonali (peraltro presenti in quadri di qualche anno fa) hanno definitivamente lasciato il posto a una squillante gamma cromatica che gioca con accordi timbrici di estrema freschezza e immediatezza: rossi, verdi, blu, viola c il giallo che svolge il ruolo cruciale dell’attivazione luminosa della composizione. L’effetto prodotto dalla visione dei quadri di Tindaro (nature morte ma soprattutto figure in interni) e piuttosto singolare: c’è allo stesso tempo un’autentica suggestione di matrice naturalistica e un'altrettanto forte connotazione di pittura pura, determinata dalla estrema libertà di una dimensione autonoma del linguaggio. Non si tratta, e bene precisarlo, di realismo, ma di una pittura figurativa che si è talmente sviluppata come esperienza personale da risultare praticamente spontanea, e cioè ormai apparentemente non mediata da schemi compositivi aprioristici. Un aspetto fondamentale della pratica operativa di Tindaro e la sua necessita, inderogabile, di lavorare direttamente dal vero, sia nel caso delle nature morte sia, principalmente, nel caso delle figure che hanno sempre, in definitiva, il carattere di ritratti. E in effetti, si può dire che quello che interessa di più al pittore e l’irriducibile essenza individuale di chi gli fa da modello, anche quando il quadro e centrato su una particolare posa della figura in rapporto all’ambiente, piuttosto che focalizzato sulla fisionomia del volto. L’artista confessa che senza un confronto diretto con i modelli reali gli riuscirebbe quasi impossibile dipingere, mancando quella dialettica fra tridimensionalità vitale e bidimensionalità della tela che deve trasformarsi in una dimensione virtuale ma altrettanto vibrante. Per sfruttare al meglio, dal punto di vista espressivo, questo rapporto, Tindaro lavora con grande velocità: ha abolito ogni intervento preliminare del disegno, e fin dall’inizio entrano in azione i pennelli e i colori. La stesura è rapidissima, senza esitazioni, con pennellate nette, colori spessi, prevalentemente giustapposti o sovrapposti senza pentimenti; gli impasti sulla tavolozza sono sempre piuttosto semplici. Se un volto non riesce, viene cancellato con uno straccio, e ridipinto partendo dall’inizio. Il risultato finale non ha comunque nulla di improvvisato, anzi al contrario ci si stupisce per la studiata messa a punto compositiva degli elementi in scena e per il controllo delle deformazioni che caricano di espressività le figure. Tindaro raggiunge un suo particolare equilibrio figurativo attraverso un contrasto, ben calibrato, fra la forza esplosiva della dimensione cromatica e la relativa staticità delle figure in posa e degli oggetti (chitarre, mandolini, bucrani posati su sedie): si viene a creare cosi una atmosfera caratterizzata da un incanto sospeso, che invita a una meditata contemplazione visiva, a un silenzioso colloquio con le figure che ci guardano mute, immerse nella loro festa di colori. I personaggi ritratti sono quasi sempre amici dell’artista (Luca, Viviana, Roberto, Enrico, Francesca, Walter...) e questo fatto contribuisce forse ad accentuare un certo tono intimista che aleggia su molti quadri. Un dato questo interessante da analizzare. La connotazione intimista della pittura di Tindaro, in apparente contrasto con il cromatismo espressionista, nasce a mio avviso dalla scelta di fare del proprio studio il microuniverso totalizzante della sua pittura, il teatro della rappresentazione pittorica dove di volta in volta vanno in scena personaggi c cose, mai troppo lontane dalla propria personale dimensione d’esistenza. Forse solo cosi, oggi, e possibile vivere ancora in modo autentico l’esperienza della pittura; forse solo cosi, oggi, può sopravvivere una certa pittura di qualità.
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Stefano Santuari
1996
Une idee appartient au monde entier,
una image a vuos seul.
Jules Renard

Il mondo di Tindaro Calia si mostra di sontuosa materia, in modo inversamente proporzionale alla costituzione d'oggetto della medesima. Per dirla in altri termini, questo artista va verso il reale all'arma bianca. Ciò si esprime in irata immediatezza dell'attimo, gioco pittorico condotto al limite del rischio.
Contemperare lucidità formale e febbre cromatica è la sua scelta evolutiva.
All'origine c'é un corto circuito e una piccola implosione: i fauves sciolti da ogni riserbo s'imbevono del Picasso blu e rosa cercando di fissare la spazializzazione del colore matissiano.

Tutta la sua tavolozza punta a snidare e rovesciare ogni zona morta della superficie. Non è possibile rintracciarvi sbavature, al massimo irridenti intemperanze. Se, infatti, Matisse "accettava il costante ingaggio di racchiudere in una plaga di colore piatto, rudemente contornato, non un colore solo, non un'impronta fuggevole dell'oggetto, ma un'immagine dell'oggetto prelevato nella luce, nell'atmosfera, nella situazione stessa degli impressionisti" (Brandi), Calia sposta lateralmente, quasi un'impennata, la gravità mortale di quest'ultimi concentrandosi piuttosto in alcune nuances baconiana.
In ogni opera d'arte (qualunque sia la materia che la fonda) resta qualcosa di inespresso e non dicibile. Un complessivo elemento irriducibile a qualsiasi semiosi. Ciò costituisce il carattere segreto dell'opera e ne diviene, simultaneamente, il guardiano muto e ironico.
Anzi, proprio la miriade possibile delle semiosi garantisce la migliore gemmazione della sua inesplicabilità. La sua piccola eternità. La pittura di Calia, nella sua vocazione di rinnovato codice, è una pittura di superficie, che soffre della nostalgia della profondità. Intendiamoci, soffusa di una malinconica colpevolezza essa aspira a forare la spazialità e, ferendola, aprire la tela su una vertigine in cui tutti i colori possono alchimicamente trapassare, ribollire. Delle nuances baconiane, si diceva. Non, dunque del piacere e dello stridore dell'urlo del grande inglese. Delle nuances, piuttosto, ha dato Calia grazia e fissità di sguardi, salvandosi nel sorriso vuoto della classicità picassiana, circumnavigando felicemente ciò che lo avrebbe fatalmente condotto nell'orrido, nella forza rabbiosa delle tragedie di Bacon, nell'epigonismo un po' patetico. Ecco, nell'intricarsi delle analogie stilistiche si configura la sigla di Calia; la permanenza della tradizione nella sua doverosa tangenza e oneroso debito ad alcuni vertici assoluti della contemporaneità.
Relazione questa che si presenta come costante gestazione di un unico, insormontabile, travaglio; di notevole autoconsapevolezza della ricerca come proprio peso specifico. Non ci sono culti nella sua arte, ma occasioni e tentazioni sarcasticamente accarezzate.
"Dalla gestualità astratta degli anni del dopoguerra allo spray monocromo della neo-astrazione degli anni '70, abbiamo assistito a un deperimento inaudito dell'arte pittorica. La straordinaria summa di conoscenze che nel corso dei secoli l'ars pingendi aveva pazientemente accumulato si è ridotta, in meno di trent'anni, a non essere nient'altro che una misera abilità di mestieranti" (Jean Clair).
Ecco, oggi noi dobbiamo silenziosamente e trepidamente osservare il miracolo di pittori come Calia che attraverso i fuochi incrociati e obbligati dei Maestri riconsegnano al mondo i rudimenti e l'alba dell'arte.
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Giorgio Seveso
Busto Arsizio, 1997
L’AFFERMAZIONE FIGURATIVA Certo che è ben curioso il destino che la nostra cultura artistica, nelle sue attuali condizioni, riserva agli scultori ed ai pittori che amano e coltivano, come Tindaro, una forma di espressività appassionatamente figurativa, rifiutandosi di aderire alle pasticciatissime genericità oggi di gran moda. Proprio loro, che così intimamente sentono la carica emozionale del loro lavoro e credono alla sua universale valenza di testimonianza lirica e fantastica, sono oggi in qualche modo costretti a lavorare "in difesa", quasi a sentirsi minoranza estranea o intrusa in un ambiente occupato invece da una maggioranza rumorosa e volgare, cinica e superficiale.
Questa consapevolezza è ancora sotterranea, è ancora patrimonio di pochi in un mondo pervaso come il nostro da mille frastuoni di superficie, da mille apparenze senza vera sostanza, ma già dalla metà degli anni settanta, qui a Milano, riflettendo e lavorando assieme ad un gruppetto di suoi coetanei, Tindaro ha rappresentato nelle sue scelte un momento diciamo così di "resistenza" appassionata a questa marea montante di superficialità, di giustificata polemica verso le tendenze concettualizzanti di rifiuto della pittura, allora di gran moda, e insieme verso le prime, trionfalistiche affermazioni della transavanguardia, del suo effimero e opportunistico recupero dell’immagine dipinta. Certo, con tutte le limitazioni e le difficoltà dovute alla sua allora molto giovane età e, soprattutto, alle abitudini mentali di gran parte dei galleristi e operatori nostrani, i quali, contro le loro pur straordinarie tradizioni d’intraprendenza e coraggio dei decenni precedenti, nutrivano, come purtroppo sembrano nutrire ancora oggi, una vera diffidenza verso chi non si dimostrava allineato o allineabile alle mode prevalenti. Ciò significa che, in quel primo periodo di lavoro, per ciò che posso ricordare, non furono molte per lui le mostre e le iniziative da mettere in bilancio, per quanto fervessero, invece, nel suo studio e in quelli dei suoi amici, le discussioni, gli incontri, le letture e le riflessioni. Al contrario ricordo ancora molto bene i suoi quadri di quegli anni. C’era, in lui, come una sorta di febbrile determinazione a scavare nella polpa viva della figura, a rivelarne i succhi più intimi e riposti senza tuttavia mai abbandonare il soggetto e la sua verità effettiva, e senza mai permettere che l’enfasi espressionistica montasse a tal punto da divenire fine a se stessa. Erano soprattutto grandi ritratti, come del resto anche ora, ma a grandezza più che naturale, incombenti, meditabondi, talvolta cupamente imbronciati. Ombrosi e attoniti, queste immagini di ragazzi, di amici e di amiche ritratti in piedi o seduti nello studio, trovavano una sorta di insolita epicità in una loro pittura di larghe materie, grondosa, determinata, addirittura disinvolta ma, sempre, sensibile: una pittura che, da quelle prove veramente giovanili eppure già cosi precise, mostrava energie coraggiose e potenzialità non certo comuni.C’era già in lui insomma il sentimento di un modo d’essere pittore e di lavorare sull’immagine che non è dato incontrare di frequente, purtroppo, nel nostro panorama pittorico. Un sentimento, cioè, di responsabilità totale verso la pittura. Un sentimento di puntigliosa affermazione figurativa per il quale il problema dell’espressione non è solo affare di gusto, non è solo questione di naturale disposizione della mano o, peggio, di attenzione e di furbizia intellettuali. Quel che distingueva e che distingue Tindaro da molti altri pittori d’oggi, difatti, è proprio questo. Essere artista esponendo prima di tutto se stesso e la propria problematica sensibilità, la consapevolezza empirica del proprio stare al mondo con gli occhi e con il cuore spalancati a sentire, a capire, a sapere le condizioni, le contraddizioni e i limiti di quelle scintille di coscienza universale che chiamiamo uomini e donne.
Del resto, almeno a livello tematico, queste scelte sono ancora tutte ben presenti nel suo lavoro attuale. Ne sono, anzi, la caratteristica e, insieme, la condizione. Ciò che oggi è cambiato, e che ovviamente è maturato ulteriormente, è invece qualcos’altro. Ed è il senso acuto della sua misura espressiva, l’avvertita e reale portata delle deformazioni, che oggi nel suo dipingere non appaiono mai come possibili trasfigurazioni, come arbitrarietà o "licenze": le deformazioni morfologiche e anatomiche non sono più, se mai lo sono state talvolta nei primi quadri, iperboli segniche, ma sono, invece, precise e rigorose intensificazioni di un gesto, di una postura, di un oggetto o di una prospettiva in senso espressivo e lirico, con un loro clima puntuale, con tutto un loro frantumamento sentimentale di geometrie emotive ricostruite al calore esperimentato di uno sguardo che dimostra di aver compreso quanto e come le "apparenze" della realtà siano, in arte, uno dei tramiti più efficaci, se non l’unico possibile, per impadronirsi a fondo della realtà stessa, e per poterne fare poesia d’immagine senza tradimenti.
E dunque, dicevo, se pure qualcosa è diverso dai primi anni, il tema complessivo della sua pittura non è oggi assolutamente cambiato. La coerenza di Tindaro giunge, appunto, soprattutto qui, ad esprimersi pienamente in questa sua caparbia e tenace fedeltà al proprio destino poetico. Ed appunto, proprio in questa chiave decisiva e suggestiva, è capace di straordinari recuperi formali, di affascinanti quanto curiose citazioni segniche e cromatiche, ma sarebbe meglio dire rinvigorimenti o riattualizzazioni, di forme e stilemi che hanno fatto la storia dell’arte moderna, come quelle, soprattutto, dei fauves, le cui intemperanze e accentuazioni "selvagge", antitonali e antiretoriche, egli ha innestato sulle proprie tensioni espressionistiche, e che crepitano sulle superfici delle sue tele con un uso acutissimo dei colori primari e di alcune loro stridenti relazioni capaci di insolite ed affascinanti avventure. Pigmenti violentemente accesi, acidi, urticanti, che si distribuiscono in uno spolverio di spatolate o di grassi colpi di pennello come in un risoluto, taciturno combattimento tra l’epidermide della composizione, le prospettive e il gioco delle masse, fino a che ne risultano, tutte insieme nell’esito finale, irritate e commosse in ogni brano, sconvolte e tuttavia, alla fine, ricomposte.
Verdi marciti, rossi sanguinanti, gialli dorati o sporcati da fonde ombre accese di violetto e di cobalto s’inseguono da un punto all’altro dell’immagine, si dividono e si rimpastano nei rivoli della definizione plastica come tessere di un mosaico dell’immaginazione scaldate al calor bianco e portate fino al punto di non ritorno dell’ebollizione e della fusione.
Eppure, malgrado le iperboliche tensioni che Tindaro ricerca e lascia crescere nella sua pittura, malgrado l’incalzante ridondanza formale di taluni suoi ritmi, l’effetto finale e complessivo che queste tele lasciano negli occhi dello spettatore non distratto ne frettoloso è quello, sempre, di una misurata, sobria concentrazione sul tema poetico dell’uomo e del suo simulacro: sul tema dell’immagine dipinta. E questo clima di sobrietà, questo "silenzio" lasciato negli occhi dal pur grande clamore delle tinte, dal concerto sonante dei suoi gesti, è infine la maggiore, anche se più segreta, qualità del suo lavoro. È qui che Tindaro è pittore fino in fondo, largo di esiti già raggiunti e di sviluppi futuri. La sua intelligenza della figura, del colore e dello spazio, non ha timori ne esitazioni quando, davanti alla tela, nel silenzio dello studio, sa di dover andare controcorrente, di pensare e di operare su valori, su commozioni e su spessori del fare e del raccontare cui sempre meno la gente d’oggi è capace di prestare vera attenzione. Ma, appunto, la qualità di un immaginario come il suo non può che essere vincente, in fin dei conti, poiché si tratta di qualcosa che è più robusto, e in fondo anche più necessario, diciamolo, di qualunque disabitudine a "sentire" veramente si sia potuta fare largo tra di noi, frastornati come siamo dalle contraddizioni e dall’appiattimento quotidiano, appena temperato dalle misere consolazioni di un grossolano immaginario consumistico o televisivo distribuito in pillole.
E dunque la buona pittura, la seria pittura (come è buona e seria quella sua) soprattutto oggi servono davvero. E servono ad "arredare", ben prima delle nostre case, le nostre domande e le nostre contemplazioni, le nostre speranze e l’interità dei nostri sentimenti.
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Renato Valerio
Varese, 1999
TINDARO CALIA: un animo artistico dallo spirito inquieto teso sempre alla ricerca di una pittura che privilegia la poesia, la musicalità e i valori umani.
Il frutto dello spirito che attiva o anima una autentica azione creativa può essere considerato antico, vecchio, anacronistico, sorpassato rispetto alla temporalizzazione in cui si esplica? Oppure, esso, può essere significato con lo stessa metrica di giudizio (nel senso di risultanza compositiva/esplicativa) e quindi vivere in un qualsiasi periodo di spazio temporale e tempo storico indipendentemente dal fatto in cui prende vita e forma? E, ancora, quale può essere la caratteristica precipua che può riuscire a far vivere in un presunto spazio illimitato, il frutto di questo spirito che attiva e anima una vera opera pittorica a dispetto del dato temporale in cui essa viene concepita ed eseguita? E’ il dilemma di sempre. Ma una cosa appare certa, i valori che determinano una vita "longeva nel tempo" di una autentica opera d’arte, non sono certamente quelli rappresentati dai chiassosi sperimentalismi, strutturalismi, minimalismi concettualoidi, bensì da quelli della poesia, della musicalità e dei valori umani che essa riesce ad esprimere – e questa – al di la del supporto dell’ovvio bagaglio pittorico-tecnico-compositivo. E comunque sia, l'opera d’arte – e per opera d’arte si intende quella vera – ancorché datata e storicizzata, vive sempre dentro e oltre il tempo in cui essa si manifesta – e mai per merito del suo dato anagrafico - appunto perché, al suo interno, si svelano e fermentano valori vivifici che certamente, non sono riconducibili ai soli requisiti meramente estetici e finanche di databilità che di per sé, non costituiscono le peculiarità sufficienti per darle la "la vita nel tempo": e questo è un dato inconfutabile. Come è pur altrettanta vero che, da centinaia di anni assistiamo al processo della continua trasformazione dei vari modi e linguaggi del farsi e del proporsi dei messaggi artistici i quali, urgono e premono perché avvertono la chiara esigenza di cercare di definire quali siano i veri contorni e le specificità che possono attestare i valori di "antico o moderno" all’interno di un’opera d’arte (al di là del suo data di origine e databilità). E infatti, ancora oggi, non è cosa inusuale riscontrare anche negli scritti più autorevoli della cosiddetta critica ufficiale, affermazioni del tipo: ".. come è moderna quella scultura antica, come sono attuali e moderne le linee e l’esecuzione di quel dipinto del trecento." Ed è forse in questi eterni ritorni così formulati dei concetti "antico e moderno", che si nasconde il fascino che, in qualche modo, circonda e determina la "vita nel tempo" di un’opera d’arte. A fronte di tali considerazioni con quale spirito possiamo arrivare a definire oggi l'opera di un pittore contemporaneo come il milanese Tindaro Calia, sul cui percorso artistico si intrecciano storicamente sia lo spirito arcaico che quello contemporaneo? Artista dai trascorsi di formazione accademica, colto, preparato e aggiornato, e con alle spalle una storia artistica personale di tutto rilievo, dopo lustri di attività, di ricerche confronti ed esperienze, è approdata in un suo mondo artistico, dove privilegia in primis le verità della vita quelle degli affetti più cari, dell'armonia, della poesia e della musicalità, che egli sa peraltro ben cogliere, anche in un mondo divenuto purtroppo sordo dinanzi ai valori "umani, spirituali, culturali artistici" e di autentico riferimento universali. Il pittore milanese immerge e affonda la sua analisi dentro questo suo mondo per scoprirne tutti i moti pulsanti e per fermare una emozione di vita più partecipata e intima. Egli lo fa con la discrezione di colui che vuol catturare le cose che lo circondano, senza turbare alcuno e con un approccio discreto e sempre teso a carpirne e coglierne le vibrazioni e la vitalità più significative, per imprimere più pathos nei componimenti dei suoi discorsi pittorici. In questo suo procedere, Tindaro, è lontano dallo logica esecutiva tipica degli sperimentalismi e delle mode concettualoidi che si impongono più per la loro eccentricità farfalleggiante che non per reali valori e qualità votate sempre più al servizio di input mercantili, per privilegiare l’indirizzo dell’autentico impegno artistico e culturale, tramite una azione più meditata e più sofferta. E un artista, veramente responsabile nel suo ruolo, si misura anche quando si dimostra capace di dire "no grazie" alle lusinghe e allo sirene del facile mercato legato ai clamori della pubblicità della carta patinata, che gratificano "si il portafoglio", ma sicuramente non la vocazione artistica. E, Tindaro Calia, sino a tutt’oggi, risulta tra i pochi artisti di livello che fortunatamente hanno saputo rinunciare al richiamano (a differenza di altri suoi colleghi) di queste chimere, per favorire e sviluppare di più, il proprio personale discorso artistico. Un discorso artistico che, sta germinando e crescendo all’interno di un territorio costituito da ben altri valori, cioè quelli della storia dell’arte e quelli universali, e di tutto ciò che esiste nella sfera sensibile dell'animo umano. Una scelta coraggiosa – la sua – perché il mondo contemporaneo, sembra essersi proprio incamminato nella direzione opposta a quella da lui intrapresa. La rapidità e la frequenza con le quali poi si propongono nel settore artistico gli indirizzi di stampo solo commerciale, unito alla velocizzazione dell’orgia dei messaggi che li sostengono, imposti sistematicamente da coloro che di tale settore si sono impadroniti solo a scopo di lucro e con i quali investono quotidianamente tutti i possibili fruitori, sembrano aver proprio monopolizzato tutto il settore, penalizzando certamente la creatività artistica: ci si deve chiedere allora se la loro "proclamata qualità" - pubblicizzata attraverso i mass-media - corrisponde davvero in termini reali e di aggiornamento, ad una "autentica qualità storica e culturale" pertinenti alle attività dello spirito e più rivolto ai valori umani. Ed i proprio di fronte a questi quesiti e a queste annose questioni, che il nostro artista ha fatto le sue valutazioni e le sue scelte. Sono valutazioni e scelte assolutamente consapevoli, che si avvalgono della intimizzazione dei valori umani e storici universali di sempre, un patrimonio che egli sa, che non si deve ne perdere, ne tantomemo ignorare. Tindaro tende cosi a formulare la sua proposta che è tesa a far vivere questi valori, plasmandoli con le esperienze della storia che oggi lo vede fra i protagonisti della vicenda artistica contemporanea, e, con l’ausilio del suo innato talento di pittore e degli strumenti carichi di notevoli e indiscusse sensibilità e vivacità psicologiche in suo possesso, cresciute proprio all’interno della conoscenza sia appunto della storia coeva che di quella che ci ha preceduti, che, unita ad una compatta ed omogenea visione culturale di ciò che nell’attuale società si va sviluppando, gli consentono di agire con sicure proprietà professionali, in direzione del a affermazione di una propria autonoma, libera, legittima e qualificata identità artistica. E quindi non stupisce – e non può sorprendere più di tanto – constatare che l’artista di Segrate, abbia sin qui rifiutato di obbedire al richiamo delle effimere lusinghe di certi sbrigativi operatori mercantili in auge oggi nel settore, come viceversa, purtroppo, hanno fatto molti suoi colleghi. Tindaro Calia è finito cosi a far parte della sparuta schiera di quei veri artisti che responsabilmente, rifuggono il comodo alibi della giustificazione dalla "servitù commerciale" divenuto un penoso ricorso a paravento per certuni, a scusante di questa "dipendenza" oggi vergognosamente camuffata da una presunta nobile causa di "indigenza esistenziale". Tindaro è un artista serio che non ama ricorrere a tali ambiguità, anzi al contrario, pur nelle avversità nelle quali anche molti altri come lui si dibattono, egli ha scelto responsabilmente di battersi con le armi del "suo mestiere". per garantirsi uno spazio, in un mondo artistico come quello attuale, divenuto infimo, paludoso e finanche equivoco, sia nelle proposte, che nei contenuti e nei valori, al fine di ottenere rispetto per il suo lavoro ed affermare la propria "indipendenza interiore". Una "indipendenza interiore", libera dai gravami dei sistemi che attualmente reggono le regole delle proposte del mercato dell’operare artistico contemporaneo, e certamente più tesa, a favorire la crescita di una azione più fortificata in direzione della ricerca di uno stile e di una espressione artistica più convincenti, che sicuramente l'attività cortigiana al servizio di mercanti senza scrupoli, non gli avrebbe mai potuto consentire. Tindaro ha cosi optato per la scelta più rischiosa, ma certamente più cosciente e professionale, sotto il profilo della affermazione di una onesta e autentica vocazione artistica. E, libero da questi vincoli, oggi, è un spettacolo vederlo all’opera. Infatti, quando egli esegue soprattutto un ritratto - nella sua azione emergono le particolari caratteristiche distintive e proprie del repertorio sia del suo lavoro che della sua razza di vero artista – e queste peculiarità - si evidenziano nell’approccio preliminare con il quale egli stabilisce il contatto diretto con il soggetto preso in esame, non per riprodurlo, ma per interpretarlo, per conferigli una sua sensibilità e una sua un’anima, prima di tradurlo in forma e colore dentro una spazio telato. Nell’affrontare questa operazione di avvicinamento all’altra entità, nella quale Tindaro effettua il tentativo di dare anche una vita interiore alle forme che si vanno ad imprimere col suo gesto sulla tela, egli, si estranea di colpo dal mondo esteriore che lo circonda e, come se venisse improvvisamente sospinto da una forza misteriosa in un altra dimensione, agisce d’istinto con la materia-colore, la quale, sollecitata da una azione che improvvisamente si fa frenetica, si scioglie improvvisamente in una maniera fluida e dinamica carica di una irrefrenabile energia, che dilaga e si scarica con impeto, dando vita e forma al suo personaggio: e in questa particolare e partecipatissima azione, è solo il suo istinto da vero pittore quale egli è, che prende il sopravvento su qualsiasi altro possibile gesto ragionato. Calia in questo suo procedere riesce a stabilire con tutti gli elementi che concorrono a determinare in quel preciso istante la sua creazione (vale a dire, il soggetto, la materia pittorica, lo spazio strutturale) una armonia musicale e compositiva che trova pochi riscontri, e le cui forme che si vanno ad affermare sotto la sua stringente azione sulla tela, risultano pregne di una suggestiva liricità il cui impatto emozionale e coinvolgente. In particolare – a tal riguardo è soprattutto nelle opere più giovanili – si svela in tutta la sua caratterialità, un impeto pittorico che trova il suo riferimento storico nelle radici e nelle movenze che sono proprie dell’azione pittorica dei fauves. Infatti i riscontri timbrici e caratteriali o anche strutturali che abbiamo avuto modo di leggere in questi suoi racconti pittorici, ci riconducono - in ordine a talune esplicite affinità coloristiche e formali- proprio in tale direzione, e laddove, il colore, aveva il compito di "affermare l’istante" precipuo del valore dell’atto puro del dipingere e del significare un gioco di luci, di forme, a volte così in apparenza del tutto innaturali, da metterne perfino in dubbio anche la possibile vera valenza in senso artistico. Tutto ciò il pittore milanese l'ha perfettamente inteso e, pur essendo stato traghettato nell’ambiente pittorico da questi forti accenti alle matrice fauves, di queste caratterialità oggi, ha forse mantenuto solo (e ci riferiamo alle opere più recenti) e nel senso primordiale come pittore d’istinto, l'agire di un'azione che si accende improvvisamente come un bagliore di fiamma che ti prende e ti avvampa nella durata stessa del tempo che esercita il suo fascino mentre la osservi nel gesto della sua esplicazione e rivelazione. Pensare però, che Tindaro Calia si sia fermato sulle ali di questo procedere, e certamente espressione impropria è alquanto riduttiva nei confronti della sua produzione attuale, soprattutto se ciò, finisse solo per significarsi in senso temporalizzato dell’istante ma, proprio a partire da queste basi, il presupposto - al di là della citata concezione fauves – che appunto voleva che l'azione non dovesse ridursi a fermarsi sulla soglia della definizione aggettiva, rivela che Tindaro ha inequivocabilmente superato tale passaggio per approdare ad una espressione che oggi imprime al suo gesto, "sì la fiamma dell’atto pittorico fauves", ma caricato di una lezione più matura sia dentro l’intera struttura del componimento pittorico, e sia, per la pregnanza dei contenuti lirici che esso ora esprime. Insomma, per l'artista milanese, la cosa più importante nella attuale fase progettuale ed espressiva del suo lavoro, è quella di non perdere la funzione specifica significante dell’atto creativo. Un atto creativo che, ha la necessità di possedere l'esigenza - secondo l’intendimento dell’artista – di esprimersi con immediatezza per afferrare un vero sentimento, una autentica emozione, senza nulla concedere a compromessi ed equivoci di sorta, come spesso viceversa accadeva e si rivelava, proprio dentro l'azione dei fauves. E così oggi, Tindaro, raggiunto il traguardo di un linguaggio autonomo, ha arricchito lo sua tavolozza e il suo colore di innumerevoli variazioni; è un colore – il suo – che è sollecitato si da un gesto rapido, ma sempre più meditato e dominato, ed ha raggiunto in questa fase del suo lavoro, una equilibrata timbricità e musicalità e maturità, che riesce a conferire una notevole incidenza poetica ai soggetti che l'artista stesso ha preso come pretesto pittorico. E soprattutto quando Calia dipinge un ritratto, il peso è l'articolazione di quel corpo nello spazio sulla tela, vengono risolti liberi dai vincoli strutturali accademici, e la risultanza di tutto il componimento, si esplica svincolato da tutte le leggi che lo disciplinano – e questo – proprio in virtù dell’uso sapiente di campiture di colore che si affermano sulla tela in libere forme che inventano anche uno spazio-vita pittorico attorno al soggetto preso in considerazione – il quale – viene armonizzato in un fluire dinamico globale e mai statico. In questo suo procedere, Tindaro si rivela certamente tra i pochi artisti in circolazione che sanno veramente cogliere con grande sensibilità, i fenomeni luminosi che l'animo umano riflette in superficie: sono aspetti infinitesimali e quasi impercettibili ai più, e che solo un vero animo sensibile sa percepire. E, questo pittore milanese, è certamente fra questi. Egli sa individuare e trasferire tutto ciò sulle sue tele, proprio perché, possiede il grande intuito e la straordinaria capacità di penetrare nella profondità del significato che sta racchiuso in una autentico macerato atto d’elaborazione intima e profonda, tesa alla irrinunciabile (per lui) esigenza di trasferire gli aspetti "interiori" di una realtà oggettivante, come lo può essere certamente, un personaggio ripreso dal vero, che lui sa leggere "nel di dentro e nelle pieghe più sfuggevoli e inconoscibili". Per fare emergere tutto ciò con un gesto pittorico - e dovrebbe apparire chiaro a chiunque che non si tratta di una banale o comune operazione che tutti possono compiere – bisogna essere veramente degli artisti autentici dotati di grazia e spiritualità. Ed è forse proprio nei ritratti che si compie questa magia in Calia. L’artista arriva a tale risultato liberato dal peso oggettivo della pura realtà intesa come "azione riproduttiva", e riesce a costruire questi suoi capolavori, con modulazioni di impasti cromatici pregnanti o suadenti, che sono una sorta di componimento ’dell'animo interiore della realtà rappresentata": i suoi soggetti cosi interpretati acquistano una valenza "interiore" che sta nel tempo, e li fa vivere nel tempo. II volto di una persona, nel suo animo di artista esercita una attrattiva - in senso pittorico – dalla fonte inesauribile e dagli esiti sempre più sorprendenti e rinnovati. Questi volti, non vengono mai fermati o immortalati come in un freddo fotogramma, ma sembrano vivere e respirare dentro una atmosfera senza tempo tant'è il carico di armonia, pathos e poesia compositiva, che li sostiene. Ed è solo forse alla vera pittura, che può essere demandato e consentito un miracolo simile. Crediamo sia da leggere in questi termini la risultanza di questa sua ultima ricerca artistica. Una ricerca artistica che a nostro parere, sta fissando uno dei momenti più significativi del suo lavoro e del suo "essere pittore artista" dentro la vera pittura, è proprio in un momento contingente come quello attuale, dove appunto si assiste, al naufragio dei valori della vera espressione pittorica soprattutto perché, fortemente condizionata dalla confusione sia culturale artistica che oggi regna sovrana, che a causa di coloro i quali, sono preposti, anche istituzionalmente, a cercare di evitare questo appiattimento di riferimenti e valori ma non fanno alcunché per impedire che ciò accada. E. in questa situazione cosi precaria per l'attività artistica in questo precipuo settore delle arti, la nota "pittorica-poetica" di Tindaro Calia, può essere per i molti che credono ancora nella vera arte, un piccolo "grande" segnale di riscatto.
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Rossana Bossaglia
Milano, 2000
TINDARO CALIA
Come ogni artista che abbia una sua riconoscibile fisionomia, che abbia dunque una precisa personalità, Calia sviluppa da anni una sua idea dell'arte legata alla figurazione diretta, con un'attenzione speciale per il ritratto. Ma come ogni artista in continua vitalità interiore, non si adagia sulla formula nella quale ha trovato il suo congeniale terreno espressivo, e continua ad evolverla; serbando alle proprie realizzazioni una connessione di stile, che è poi indice della sua coerenza e della sostanza delle sue convinzioni etiche, oltre che estetiche.
La matrice della sua figurazione può essere identificata, alla lontana, nel realismo post-bellico. Anche se, nato nel 1956, Calia aveva maturato la propria vocazione ed esperienza artistica nel momento in cui si affermava il concettualismo, egli subito si era riconosciuto in indirizzi che prediligevano la mimesi della realtà. E benché la pittura figurativa che egli aveva immediatamente alle spalle, nella Milano in cui operava, fosse orientata verso la formula del realismo esistenziale, dunque tendenzialmente con scelte di tavolozza omogenea, Calia si indirizzò subito verso il colore. Potremmo dire, a grandi linee, che andava riallacciandosi a quel post-impressionismo non mai obliterato in alcune grandi scuole europee; ma anche qui, evitando lo sciogliersi e strusciarsi della pennellata verso effetti informali, mantenendo ferma la mano nella resa delle figure.
Comunque, come si diceva in esordio, egli via via rimeditava sulle proprie formule espressive, approfondendole e variandole.
L'impegno nel ritratto, che costituisce una sua profonda passione tematica da sempre, lo ha portato a varie sperimentazioni; da quelle di tipo più sensitivo e intimista-senza tuttavia addolcimenti eufemistica quelle di più aspra potenza. Le persone molto spesso sono state colte nel loro ambiente da un punto di vista leggermente rialzato, che schiacciava la prospettiva mettendo in evidenza le loro caratteristiche fisionomiche; l'attenzione ritrattistica è stata giocata, specie nella penultima produzione, tramite una tavolozza contrastata e violenta, con prevalenza di timbri rossi sullo sfondo: quasi a dimostrare che qualunque accensione cromatica dell'ambiente non annulla la potenza espressiva dei volti.
Le ultime opere realizzate, quelle appunto che si presentano qui, segnano una svolta ulteriore, che se si riallaccia a una fase ancora precedente a quella che abbiamo appena menzionata, va tuttavia in un'altra direzione.
Il tema di base resta il ritratto, o comunque la figura umana; ma questa volta estrapolata da qualunque contesto ambientale e proposta, specie se si tratta di nudi, con significati simbolici: non per nulla il quadro che rappresenta una coppia si intitola Apollo e Dafne. I personaggi sono inseriti su uno sfondo nero: dal quale emergono con potente naturalezza; persino se si vuole, con solenne dignità. Ma, si badi, non per questo essi sono idealizzati o sublimati: anzi, il realismo di eccezionale potenza evocativa, la magistrale resa fisionomica è ancora più intensa che non là dove emergeva dall'impasto acceso dei colori. Il fondo nero consente all'immagine, specie appunto quando si tratti di nudi, di proporsi con una sorta di aulica classicità; ma nello stesso tempo il nero, dunque il buio, determina intorno alle figure un alone di solitudine.Si guardi, per esempio, al ritratto della madre, dai tratti spietatamente realistici, seduta su uno sgabello parte evidente di un arredo domestico; il suo isolamento dal contesto ambientale accentua la drammatica tensione del volto, come dire che l'espressione tesa e preoccupata si fa simbolo di un'interpretazione esistenziale.
Non c'è, nella produzione di Calia, un'opera che potremmo definire leggera; non c'è un ritratto allegro, neppure se sorridente; ma essa non va letta in termini nichilisti: è un'amara coraggiosa consapevolezza della condizione del vivere, che specie nelle ultime opere, intense e forbite, assume valori trasfigurati. Un realismo classico, potremmo definire lo stile di queste opere potenti. 
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Pier Angelo Carozzi
Novara 2001
ICONA DI LUCE ATTIMALE
I
Fu verso la fine di gennaio del 1994. Mi ero recato, con un conoscitore di stampe, in una galleria d'arte di Milano, quasi prospiciente la cerchia dei navigli di Porta Ticinese medievale. Intendevo acquistare qualche incisione, tra le molte esposte, di un maestro della scultura italiana del Novecento. Nessuna ebbe un mio particolare gradimento e non se ne fece nulla. Fu in quella occasione che il gallerista, al termine di una dialogante conversazione, mi omaggiò un catalogo, da lui edito, delle opere più recenti di Tindaro Calia. Lo sfogliai subito, incuriosito dalle lontane assonanze megalogreche dei nomi:

Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m’assali e ti chini in cuore. [...]
(Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari)

Che altro è "calìa" - mi chiedevo - se non frammento d'oro o argento, precipite all'orafo o all'argentiere che lo lavora sul fuoco? (Ma qui non si vuole far "calìa" di Tindaro, bensì palesarne il metallo prezioso del colore solivo!)
Ne rimasi come provocato e attratto, in una sfida di intendimento di una pittura caleidoscopica - intravista sulle tavole riprodotte - dove il rosso scarlatto o vermiglio intramava con lingue di fiamma una tavolozza addensata di azzurri, di verdi, di gialli e di toni turchese.
Ripresi in mano quel catalogo il fine settimana, seduto nel silenzio del mio studio, e lentamente ricominciai l'indagine. Mi resi conto dalla biografia di Tindaro che i vividi colori, espressione di luce e di sole, erano come iscritti nel suo patrimonio genetico, che sprizzavano di necessità, con giovanile empito, dai tubetti alla tavolozza, ai pennelli, alle tele, perché dovendo mediare le forme nella simbologia dell'immagine l'espressione della libertà si concretizzava, mai fotografata ma ritratta, in icone di luce attimale. La memoria mi mormorava versi di affini epifanie, onde sonore rifratte sul mio litorale da un cammino di secoli: Lucrezio latino e cosmico (lo chiamerei misterico) mi induceva "sulle spiagge divine della luce", "dias in luminis oras" (De rerum natura 1,22), ma sempre con i piedi saldi sulla "terra che dovremo lasciare", come Orazio grecanico ci continua a ripetere, "linquenda tellus" (Carmina II, XIV, 21); perché "frattanto fugge, il tempo irrecuperabile ci sfugge", profetizza Virgilio, "sed fugit interea, fugit inreparabile tempus" (Georgicon III, 284).
Forse Tindaro ne è consapevole, forse non ci ha mai pensato, ma la sua pittura - specie quella degli inizi, protrattasi con registrati sviluppi fino alla metà degli anni novanta del Novecento - è (per me) registrazione istintiva di luce breve, di luce che è ancora solare e pertanto fuggente:

Soles occidere et redire possunt
nobis cum semel occidit brevis lux
nox est perpetua una dormienda.
(Catullo, Carmina V, 4-6)

il sole può cadere e risalire
ma noi, caduta questa breve
luce una notte perpetua dormiremo.

Il veronese Catullo non si discosta dal venosino Orazio, nel prospettare il destino di un Ade romano: "tutti ci attende una notte", "sed omnis una manet nox" ( Carmina I, XXVIII, 15), così che il Foscolo, tra miti e illusioni romantiche, non può non prospettare risolutivo - in accezione vichiana - il culto della tomba:

Rapìan gli amici una favilla al sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi de1l'uom cercan morendo
il sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
(Dei sepolcri, 119-123)

Solo ebraismo e cristianesimo e successivamente islam ribalteranno il "telos" in "lux perpetua", in "luce ininterrotta", che una volta iniziata non avrà fine. Ma qui occorre fare il cosiddetto salto mortale e con "bel rischio" (il "kalòs kindynos" di Platone) affidarsi a quello Spirito che spira solo a quanti sono docili a una navigazione di vela, senza remi. Come Dante, che uscito dai cieli cosmici del mondo, ascese nell'Empireo -"che è a dire cielo di fiamma, o vero luminoso" (Convivio II, III, 8 e 10-11)-

[…]al ciel ch'è pura luce
luce intellettual, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
(Paradiso, XXX, 39-42)

Ma qui siamo in contesti metafisici e noi, nel tempo, possiamo solo timidamente illustrare apocalissi - ossia descrivere con arte smozzicate esasperanti perfettibili rivelazioni- e proiettare per vigliaccheria in una storia utopica l'éschaton immanente.Infatti l'ebbrezza dionisiaca - dalla tragedia greca a Nietzsche - ci appaga affogandoci nel mosto spremuto da innumerevoli cicli:

lieta dell'aer tuo veste la luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti.
(Dei sepolcri, 168-170)

Laddove la "sobria ebbrezza dello spirito" dispensa, in catapultata esistenza, "di vivere nel soggiorno della luce inestinguibile […] sicuro della propria salute, si allieti su spiagge serene, per sempre vivere e sempre trovarsi nella luce", "semper inextinctam habere luminis auram [...] securus de salute placidis laetetur in oris, semper victurus, semperque in luce futurus" (Prefazio da Messa quotidiana per un defunto, in Messale ambrosiano, Milano 1962,1131-1132).

II
Leggiamo nei frammenti di Eraclito di Efeso. "Pertanto occorre seguire ciò che è comune la parola è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno un loro pensiero" (D-K, 7). La parola dell'artista non è propriamente la parola, il logos, strumento di intelligibilità, ma un elemento cosmico di mediazione assunto a simbolo, quale lo spazio, i colori, i metalli, i marmi, le pietre, i suoni, il movimento, i profumi li sommo nostro poeta direbbe "vedi che la ragione ha corte l'ali" (Paradiso, II, 57) esortando l'artista a tuffarsi nell'agone della ricerca. "esperienza se già mai la provi / ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti" (Paradiso, II, 95-96)

Varcando la soglia della maturità, sul crinale dell'ultimo decennio del secolo tra- scorso, Tindaro Calia, giunto ai quaranta, si è reso conto di vivere il dramma dell'espressione aporetica, di soffrire l'affanno della comunicabilità. La luce gli si smorza, il colore gli si attenua, entrano nelle sue figure gli sfumati, i semitoni, le tinteggiature pastello. Agli squilli di tromba di una epicità battagliera, subentrano flauti e siringhe di una introspezione elegiaca e quotidiana, talora spietata, nei particolari di vaste campiture (si veda il catalogo della Galleria Armanti, Varese 1999).
Conobbi personalmente Tindaro recandomi da lui, dopo una telefonata e il tempo di percorrere il tragitto da casa mia, in quel di piazza Caiazzo, al suo studio di Segrate. Cinque anni dopo averne intuito la tensione di progettualità e mentre stava attraversando la fase di passaggio dalla luce alla tenebra. Non che gli si spegnesse il fervore di creatività,

nil mortalibus ardui est
caelum ipsum petimus
(Orazio, Carmina I, III, 37-38)

nulla è gravoso per l'uomo
destinato a morire
il cielo stesso scaliamo

ma, rallentato il passo, si sottoponeva consapevole a un più alto grado di iniziazione, "per tacito bosco ombreggiato", "per tacitum nemus" (Virgilio, Eneide VI, 386,473 ),"in una vasta selva", "silva in magna" (ibi, 451) che tanto ricorda la "selva oscura" di dantesca memoria.
Quando poi mi imbattei nella grande tela di Apollo e Dafne - che programmaticamente apre per l'artista il 2000 - dove l'essenza del mito metamorfico è appena allusa nella fronda di alloro esibita a ritroso dalla ninfa, primo amore del dio, statuario nella sua nudità, entrambi ravvicinati ma irraggiungibili, avvolti in una luce che li plasma ma che li allontana, la scansione delle braccia fissata in segmenti paralleli senza alcuna tangenza, lo sfondo una quinta teatrica a noi parallela, confesso che ho avvertito viva e operante la potenza di una grande tradizione: quella che da Giotto all'Umanesimo e a Caravaggio giunge a noi, trasmessa dal coraggio di una coerenza formale, per nulla appiattita a ripetere, ma tutta tesa a continuare lo scavo di un contenuto sempre antico e sempre nuovo, perché asceticamente percettivo a rilevarne la iscritta categorialità:

molte sono le cose tremende
ma nulla è più tremendo dell'uomo.
(Sofocle, Antigone, II coro)

Mi sono tornate alla mente le parole dell'ultimo Montale, che bene si addicono a Tindaro e ai suoi oli di questi giorni in cui gli capacita di vivificare nature morte da renderle eloquenti, di collocare il corpo dei modelli su fondali svaporanti di colori di luce così da farne emblemi, di fare della sua pittura una simbologia luminosa: "puoi credere nel buio quando la luce mente" (Il fuoco e il buio, 17, in Quaderno di quattro anni, Milano 1977).
A un'artista che dialoga con la luce e che pertanto non può non coinvolgere le tenebre, ricordo il proverbiale verso leopardiano dell'Ultimo canto di Saffo, 46-47: "Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor", verso che ha un correttivo nel frammento di Euripide tragico (Nauck, 1079): "non esiste del dolore altro farmaco ai mortali".
E l'affermazione evangelica. "ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce" (Gv III, 19), posta in esergo da Leopardi a La ginestra, attesta esplicitamente il mistero della libertà umana.

audax omnia perpeti
gens h umana ruit per vetitum nefas.
(Orazio, Carmina I, III, 25-26)

audace a tutto sperimentare
la stirpe dell'uomo precipita
per il sacrilegio esecrato.

Mio auspicio per Tindaro e la sua opera futura è che gli riesca di attingere la caligine luminosa, che mai abbia "l'ingegno offeso da soverchia luce" (Petrarca, Canzoniere, 248, 13), che gli riesca di diventare fabbro sapiente, superando con la luminosità della sua arte l'oscurità, l'angoscia, la disperazione, il senso del passato perduto che oggi tra- vaglia e intristisce la cultura delle arti, della filosofia e delle lettere.
(cfr. S. QUINZIO, Religione e futuro, Milano 2001, p. 53 )
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Francesca Pensa
Varese, 2002
Il percorso artistico fin qui tracciato da Tindaro Calia appare segnato da significative trasformazioni che tuttavia nulla tolgono alla rigorosa coerenza di una lunga e inesausta ricerca poetica e formale. Le figu­re, i ritratti, gli interni e le nature morte costituiscono i soggetti previlegiati di questa pittura, definendosi come temi convergenti ma sempre diversi e costan­temente sottoposti alle verifiche della creazione espressiva, declinata attraverso una potente forma­colore che sostanzia tutta la composizione.

Le opere di qualche anno fa mostrano un'ispirazione cromatica correttamente definibile come timbrica, sviluppata secondo una gamma di colori abbastan­za perentori con speciale attenzione ai gialli e ai ros­si, che da soli, nella loro primigenia forza espressi­va, spiegano il senso profondo dell'arte di Calia. E tuttavia, già in questi lavori, così accattivanti a un pri­mo sguardo, è possibile scorgere, con un'analisi più approfondita, i segni di una scelta poetica che va molto al di là della semplice urgenza comunicativa trasmessa con il segno e con il colore. Chi ha scritto sull'artista ha giustamente messo in relazione que­ste opere con la pittura fa u ve; ma l'universo dell'Espressionismo storico è fatto di molte stelle, tedesche e francesi, ognuna con una sua storia e una sua arte: da questo punto di vista, l'opera di Calia sembra più vicina a quella di certi espressioni­sti particolarmente attenti agli equilibri interni delle tonalità compositive, come avviene, ad esempio, in certe prove di Derain, artista che riesce a temperare la forza vitale dei colori puri con la ricerca dei pesi delle cromie nella sintassi del quadro. E poi ci sono il volume e la forma delle figure e degli oggetti, che in Calia non sono mai dimenticati e che spostano questa pittura in un campo diverso, nel quale la con­siderazione di concetti e idee delle Avanguardie vie­ne superata in una visione originale. ­Fondamentale appare poi il rapporto con il modello: molte di queste opere sono ritratti, rappresentazioni di persone reali riprese in ambienti altrettanto reali, secondo un principio di osservazione del mondo che uniforma tutta l'arte del pittore. Ma la realtà non è solo fonte di ispirazione o spunto per un'elaborazio­ne poetica: il riferimento a essa diviene per Calia nodo sostanziale della ricerca artistica, trasforman­dosi in passaggio centrale della scelta formale, nel quale emerge prepotentemente una tensione comu­nicativa che supera qualsiasi tentazione semplice­mente mimetica o virtuosamente naturalistica.

E il rapporto tra realtà e linguaggio pittorico perma­ne come motivo dominante anche le ultime prove dell'artista: tra esse ancora numerosi sono i ritratti, che vengono però scanditi da una tavolozza dalle tinte più scure, che abbassano la luce delle prece­denti opere. Le immagini raffiguro uomini e donne di età diversa, seduti, in piedi o sdraiati: tutti abitano interni sommariamente definiti da tratti e zone cro­matiche che tuttavia, nella loro sintesi, individuano oggetti e spazi ben riconoscibili nella loro struttura. Il ritrattato è spesso ripreso per intero e il corpo accompagna la definizione del volto, declinando in gesti e posture l'espressione dei visi e il messaggio degli occhi. Ogni figura sembra evocare una storia particolare, ma su tutte grava la medesima atmosfe­ra, sospesa ed enigmatica, probabile specchio di un sentimento dell'esistenza che accomuna la condi­zione dell'uomo.

In altre prove dell'artista, sembra invece di poter leg­gere uno spostamento, non totale ma importante, di significato: il ritratto, pur mantenendo evidenti le sue caratteristiche, tende a tramutarsi in immagine di figura e a collegarsi quindi al valore profondo e sostanziale che questo tema millenario ha sempre avuto nella nostra storia dell'arte. I modelli, come sempre presi dalla vita reale, possono essere ricor­renti, eppure la loro presentazione, ottenuta attra­verso una pittura che di norma si costruisce sulla struttura cromatica, adesso di caratterizzazione decisamente tonale, li trasforma in personaggi che appartengono ad atmosfere lontane déiil mondo quo­tidiano: le posture appaiono semplici e naturali, ma spesso in esse è possibile scorgere il ricordo di schemi iconografici storici, mentre i volti, ben carat­terizzati nei tratti fisionomici, non esprimono alcun sentimento evidente, secondo una volontà poetica che trova riferimento nell'idea più profonda del con­cetto di c1assicità. In alcune opere, poi, la memoria dell'antico appare allusa con più chiarezza, come mostra la pOSIZione di alcune figure, ispirate alle "accademie", ripetute da secoli nella nostra arte, e come evidenziano alcuni titoli, riferibili a miti o a rac­conti leggendari.

Ma accanto a questo modo di presentazione dell'im­magine, che si spiega nelle radici colte dell'artista, si rilevano altre componenti espressive che trascinano la pittura di Calia in un ambito di assoluta modernità. Importante in questo senso è sicuramente la defini­zione dei corpi, soprattutto dei nudi, dovuta al preci­so riferimento ai modelli reali ma non esclusivamen­te spiegabile con l'accidentalità di questi: le figure, nelle loro solide e possenti muscolature, che posso­no essere corredate anche da abiti moderni, appaio­no lontane dalle forme ricercate dell'anatomia acca­demica, rappresentando tipi umani di volta in volta diversi. Anche in questi lavori i colori squillanti e vita­li hanno lasciato il posto a cromie decisamente più scure, tra le quali abbondano i neri e i blu. La com­posizione vive adesso di attenti passaggi di tono che possono creare suggestivi effetti chiaroscurali, capaci di indirizzare lo sguardo là dove vuole con­durlo l'artista. La figura appare impostata su uno sfondo che si rivela sommariamente definito e, nella sua povertà, fatto esclusivamente per evidenziare la rilevanza dei corpi, che emergono da spazi non misurabili, forse assolutamente vicini o invece infini­tamente lontani. Su tutto spicca poi la particolare resa della forma, ottenuta con sapiente uso del colo­re che pare quasi scolpire i volumi attraverso segni, tratti, pennellate che lasciano intravedere il gesto creatore dell'artista. Nascono così le immagini di corpi di un eroismo moderno, impe1etti rispetto alle proporzioni classiche e insieme perfetti nel loro significato di contemporaneità: le misure modulari di anatomie ideali ricercate nel passato sono sostituite da forme che provengono dalla molteplicità del rea­le, trasfigurate però in una dimensione di monumen­talità che rifugge peraltro qualsiasi tono aureo per definirsi in una prospettiva di riflessione quando non di incertezza esistenziale. In antico, il corpo perfetto era specchio e riflesso della razionalità del cosmo creato da Dio: oggi la figura dipinta è la controfaccia della perdita di certezze assolute, di una instabilità ideale che contraddistingue la nostra concezione del mondo. E le figure di Calia, i cui occhi spesso cerca­no i nostri sguardi, sembrano richiamarci a una con­dizione di meditazione, osservandoci da un universo che ha smesso di essere quello quotidiano, dal qua­le provengono ma che hanno abbandonato trasfe­rendosi in una dimensione significativamente interio­re e mentale.

La particolare costruzione poetica e pittorica delle opere di Calia appare complessivamente definita attraverso un attento rapporto tra volontà espressiva e ricerca di misura formale, che trovano equilibrio in scelte compositive stabilite però in modo istintivo e naturale più che studiato e predeterminato, come suggerisce la realizzazione pittorica, preceduta da una fase preparatoria breve e minima. Nello stesso tempo, anche la memoria di vari momenti dell'arte del nostro passato, che in Calia possono spaziare dal Realismo Esistenziale a Lucien Freud, sbiadisce di fronte alla tensione emotiva che l'autore prova davanti al modello e che trasmette nella sua pittura, costruita appunto da immagini capaci di catturare la nostra percezione più profonda e totale.

In un altro consistente gruppo di opere, l'artista abbandona la rappresentazione dell'uomo lasciando spazio a interni che ospitano oggetti diversi che van­no a comporre solitarie nature morte. Girasoli, violini, bucrani e altri elementi stendono le loro ombre in ambienti definiti da colori dal registro severo, nei qua­li lo spazio viene travolto dalla sostanza cromatica, che annulla la prospettiva classica creando una profondità emotiva: queste composizioni appaiono cariche di un'aura lirica e poetica che le trasforma in moderne melanconie, in iconografie di meditazione e riflessione interiore. Il ricordo più immediato va alle straordinarie nature morte di Cezanne, anche per la costruzione della forma-colore e soprattutto per la definizione dello spazio: ma in Calia il punto di vista è più ravvicinato e chiaro è l'obiettivo di trasportare lo spettatore all'interno della composizione pittorica, dentro gli oggetti e le cose, in quella costante tensio­ne percettiva che caratterizza tutta l'opera dell'artista. Proprio per questo scopo, evidente e costante è la volontà di definire i vocaboli di un linguaggio visivo capace di comunicare: la vicenda pittorica di questo autore si mostra infatti caratterizzata da una conti­nua ricerca di elementi compositivi che indichino i termini di un discorso, coerente in se stesso e sen­sibile alle opportunità di lettura di chi osserva. Quam multa vident pictores in umbris et eminentia quae nos non videmus - i pittori vedono nel mondo, fatto di ombre e sporgenze, molto più di quello che noi vediamo: questo pensiero di Cicerone spiega tanta della storia visiva dell'occidente e mi sembra possa essere riferito anche a Tindaro Calia, artista che rappresenta nella sua pittura una realtà che par­tendo dal fenomeno sa andar oltre a esso, per cer­care il senso profondo del nostro mondo, abitato da cose e da uomini, che poi siamo noi, inseriti nel tem­po storico che scorre.
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Francesco Poli
Milano, 2008
Pittura della memoria, memoria della pittura
Tindaro Calia è artista di sicuro talento e di grande sensibilità culturale e sociale. È sempre stato un convinto e appassionato difensore di un'idea di pittura fondata sulla ricerca della dimensione autentica e profonda della condizione umana e della natura, attraverso l'elaborazione di un linguaggio figurativo non piattamente mimetico ma di vitale interpretazione espressiva. Il suo modo di dipingere, caratterizzato da una raffinata tecnica, da una nitida messa a fuoco dei soggetti e da una straordinaria intensità di esecuzione, ha valenze estremamente attuali ma è anche legato alla migliore tradizione artistica. Tindaro ama la pratica della pittura dal vero perchè crede alla verità della visione della pittura, e cioè a una presa diretta con la realtà che è anche un rapporto emozionale oltre che mentale ed ottico-percettivo. In particolare i suoi ritratti, ma anche le nature morte e i paesaggi, sono una dimostrazione chiara di questa sua attitudine operativa. Nel tempo ci sono stati cambiamenti ed evoluzioni nel suo lavoro, ma abbastanza limitate a oscillazioni che vanno da una più accentuata tensione espressionista a un più nitido verismo; variazioni relative agli stati d'animo personali, alle caratteristiche dei temi affrontati e anche, talvolta,alla specifica natura delle committenze, come nel caso delle opere murali per il comune di Volpara e del gruppo di dipinti murali e su tavola per la nuova sede della Ditta Santi di Pontenure, un impegnativo intervento che viene documentato in questo volume. In questi due casi si è trattato di un lavoro incentrato sui valori della memoria collettiva, il cui obiettivo è stato quello di riuscire grazie all'energia evocativa della pittura a far riemergere dal passato, sia pure solo in modo virtuale, i valori della vita quotidiana e del lavoro attraverso la messa in scena di personaggi anonimi che sono rappresentazioni emblematiche di una comunità ma che allo stesso tempo sono colti nella loro identità individuale. Questa operazione realizzata con molta partecipazione è carica di forti suggestioni nostalgiche, ma senza sentimentalismi. Tindaro diventa qui, a modo suo, un cantore della civiltà contadina e i suoi dipinti per certi versi si possono collegare allo spirito di un bellissimo film come L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Per eseguire le sue opere l'artista ha adottato un metodo che solo in parte si allontana dall'amata pittura dal vero. Dovendo rappresentare un mondo che non c'è più se non nei ricordi e nei documenti visivi, ha per forza di cose utilizzato delle vecchie fotografie, selezionate con cura. Queste piccole immagini ingiallite dal tempo, impregnate dalle memorie di vita, sono state osservate, analizzate e interiorizzatfe dal pittore che nella sua mente ha ricostruito il contesto reale di allora e lo ha, per cosÌ dire, proiettato nella camera oscura della sua immaginazione. E poi con i pennelli ha fissato questi affascinanti fantasmi sbiaditi rianimandoli con una forte tensione estetica. Nei murali di Volpara i personaggi (la coppia di sposi, la classe, il ritratto di famiglia, il gruppo di uomini all'osteria) sono stati fatti uscire dalle ombre del bianco e nero fotografico con interventi di colore, pur lasciandoli immersi in un'atmosfera dai toni smorzati, un po' irreale. Diversa invece è la soluzione adottata nella serie di dipinti su tavola di rovere per la Ditta Santi che documentano, come erano in passato, tutte le attività produttive dell'azienda dalla varie fasi di produzione dei formaggi alla fabbricazione dei cesti, dalla uccisione e lavorazione del maiale al lavoro del maniscalco. In questo caso l'autore ha fatto una scelta quasi monocroma utilizzando toni rugginosi e soprattutto il bianco, facendo emergere le figure, gli oggetti e gli animali dallo sfondo con un accorto gioco di definizioni volumetriche e di lumeggiature. Anche il colore naturale e le venature del legno del supporto contribuiscono a rendere più affascinanti e raffinati questi dipinti, dove una certa sintesi compositiva e un un intenzionale senso di non finito evitano il rischio del verismo descrittivo. Dunque pittura della memoria e memoria della pittura si fondono in una delicata e intensa visione poetica.
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